Prigionieri.

Quanto è cambiata la televisione negli ultimi quarant’anni!
Non solo in termini di ricezione, qualità del suono e delle immagini, ma anche di contenuti. Credo si possa dire, tralasciando qualche rara eccezione, che si tratti di una vera e propria involuzione.

Originariamente creata dallo Stato per diffondere un pubblico servizio, davvero lo era; il punto più alto lo raggiunse con un programma di alfabetizzazione dal titolo “Non è mai troppo tardi”, condotto dal maestro Manzi. Nel 1961 gli analfabeti erano 2.430.000, pari a circa il 5,2% della popolazione con più di sei anni; grazie al programma, un milione e mezzo di persone adulte conseguì la licenza elementare.

In quegli anni la politica osservava il mezzo come il piccolo Elliott guardava E.T. nel giardino di casa; ma col tempo ne comprese il valore e volle che la televisione fosse non solo controllata, ma anche gestita. E fu disgrazia.

La serietà istituzionale dei programmi e dei conduttori, anche nei varietà del sabato sera, venne travolta a partire dal 1974, con la nascita delle prime televisioni commerciali private.Negli anni ’80 Canale 5, del gruppo Fininvest, assestò il colpo magistrale: tramutò il telespettatore in tele-consumatore. La forza del marketing americano venne applicata alla grande, e con essa la logica della trasmissione leggera, perché il popolo, oppresso da mille problemi dopo giornate di lavoro, “merita” programmi superficiali e ironici. Se poi questi riescono anche a creare interesse per prodotti da acquistare, tanto meglio: bisogna trattenerli davanti allo schermo.

Inizia così un sodalizio tra editore e pubblicità che andrà via via crescendo, fino ad assoggettare seri professionisti, autori, sceneggiatori e registi, alla logica del superficiale qualunquismo riversato in programmi che assumeranno le connotazioni del peggiore trash.

Enzo Biagi, Pippo Baudo, Piero Angela, solo per citare alcuni di coloro che seppero acculturare il pubblico attraverso la TV, restano ormai solo un ricordo, come l’uso di un linguaggio consono a un mezzo destinato a un pubblico variegato.

Leggo, sui quotidiani e sui social, il dibattito sulla fine dei reality: un format che costa poco, rende molto e sfrutta gente comune. Ma, a guardar bene, andrebbe rivisto l’intero palinsesto, tolti pochi programmi o fiction d’autore. Telegiornali asserviti, talk show fino allo sfinimento, programmi di prima serata che iniziano alle 22, con la gente che crolla dopo mezz’ora; repliche infinite e format che durano da più di vent’anni, sempre con le stesse facce.

Meritiamo tutto questo?
È davvero servizio pubblico, o siamo a pagamento prigionieri e protagonisti di una decadenza che ci riporta a una nuova analfabetizzazione cerebrale?

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