Diario di viaggio. Non uccidiamo l’ultima dignità rimasta ai profughi

L’IMMAGINE HA CONSACRATO LA SUPERFICIALITÀ. ASSUNTO LA FORMA DI UN ORGANISMO CHE MUTA NELLE SEMBIANZE, SI PROPAGA DIVORANDO LA RAGIONE DELLA PAROLA.

È quello che penso! Due cose mi hanno psicologicamente turbato tra le cittadine polacche visitate al confine Ucraino: la sconvolgente cruda realtà della disperazione umana dei profughi e l’inconsapevole aggressiva invadenza di stampa e televisioni, nei resti di ogni singola persona accasciata in strada o stazione accanto ad una misera borsa consunta.

Chi svolge l’attività di editore quanto di direttore, chi lavora nell’ambiente intero dell’informazione è seriamente responsabile di questa quasi unanime deriva.

Una deriva raffigurata da decine di cameraman, giornalisti e fotoreporter con microfoni e ancor di più teleobiettivi e camere puntate sui volti, gli occhi, bocche e mani di disperati in fuga dalle proprie case, famiglie e figli.

Ero lì in mezzo a loro, e mentre cercavo di aiutare, qualcuno con la mano mi chiedeva di coprirlo affinché non fosse ripreso o fotografato.

Tornato solo, ripensavo a quando la parola, il semplice racconto, quello di maestri come Luigi Barzini o Indro Montanelli rendeva reale l’accaduto facilitando l’immaginazione della scena, gli attori e la finalità della trasposizione. La parola portava dentro il conflitto tutelando eticamente le vittime da sguardi indiscreti, inconsapevolmente li rendeva più forti senza privarci del pathos dell’azione bellica.

Abbiamo bisogno di penne coraggiose, lontane dal tornaconto personale, dai like e followers. Professionisti, come molti già sono, in grado di farci andare sul luogo senza mai esserci stati, restarne coinvolti emotivamente senza esporci all’imbarazzo della morbosa curiosità o alla cruda violenza dell’uomo durante una guerra. I loro racconti unitamente a qualitative immagini e video prodotte da professionisti responsabili e non di massa torneranno a creare ambienti piacevolmente frequentabili da chi ama un’informazione chiara, veritiera ma soprattutto etica.

Ce lo siamo chiesti molte volte in occasione di drammi ambientali, di terrorismo o di guerra:” Fin dove può spingersi il racconto attraverso immagini? E quello fatto di parole raccolte, estorte a sfinimento o, peggio ancora mediante offerta di denaro per conquistare uno scoop?

Etica e deontologia calpestate dal business-audience. Sempre più lo spettatore- visualizzatore ipnotizzato da programmi che spronano alla morbosità privata è divenuto avido e onnivoro consumatore, passa senza riflessione alcuna o timidezza, dalla ricetta della carbonara, all’amplesso visibile a raggi infrarossi nella casa del Grande Fratello per finire al cadavere semi coperto di un femminicidio.

L’immagine è entrata in punta di piedi per poi prendersi la scena sostituendo la parola, i social complici principali.

Tante immagini creano inconsapevolmente una superficiale narrazione senza dare reale possibilità di comprendere. Attraverso le nostre credenze, convinzioni e conoscenze, le collochiamo fino renderle informazione ma informazione non è, trattandosi di un suggestivo self-made.

Tante, troppe, di ogni dimensione e colore da rendere incapace la semplice concentrazione, oggi arrivata a soli 40secondi secondo gli studi della Prof.ssa Gloria Mark.

Se però soprassiedo al fattore concentrazione, non posso altrettanto fare alla questione abitudine. La ripetitiva massa di immagini e video producono a stretto giro di tempo disinteresse, sottraendo valore specifico all’argomento.

Lo abbiamo visto con la Pandemia ed ora con la guerra in Ucraina. A distanza di poche settimane, molte per chi è nei rifugi o in prima linea, gli spettatori sono stanchi di fare zapping tv o web e trovare tutto e tutti che parlano di guerra, vedere immagini di morti, profughi disperati in cerca di speranza.

L’angoscia, paura e anche rabbia dei primi giorni ha lasciato posto al fastidio, tanto da sperare che tutto questo finisca presto. Ma se tutto è così velocemente mutato lo si deve all’esondazione di informazione sotto forma di immagini e video.

Trovo insensata la babele mediatica, irresponsabile la pianificazione di palinsesti congestionati da un solo tema come pure l’eccessivo impiego di risorse umane inviate sul posto.

Se ogni media applicasse più etica nella gestione del prodotto, avremmo meno cacciatori di volti e lacrime sul luogo del delitto e più umanità.

Come individuo, ma anche professionista dentro quelle mura a protezione di distese di corpi sofferenti, distrutti, ho sentito il bisogno di spegnere la camera, mettere nella tasca il cellulare.

Ho vagato sui marciapiedi, dentro i sottopassi, accanto i binari, girato aule e palestre trasformate in dormitori, oppure sconvolto fuori da squallidi ed improvvisati bagni comuni.

Volutamente, ogni volta ho evitato di incrociare i loro occhi, se avessi avuto telecamera o cellulare in mano, il loro sguardo avrebbe implorato di andarmene, evitando di uccidere l’ultima dignità rimasta.

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