Il Cile richiama uomini d’affari e Paesi sviluppati a responsabilità. Multinazionali e tessile sotto accusa per danni ambientali.

Nei giorni scorsi il Daily Mail, quotidiano britannico, ha fatto luce su una questione di cui non sapevo e con chiunque parli, pochi conoscevano.

Sapete che fine fanno i vestiti low cost invenduti ? Sessanta mila tonnellate di fast fashion, finiscono in Cile. Di queste ventuno mila vengono acquistate da grossisti cileni e rivendute oppure, contrabbandate per finire negli altri Paesi del Sud America, mentre trentanove mila vengono scaricate nel deserto di Atacama e ogni tanto bruciate.

Pile di vestiti vengono lasciate all’aperto o interrate sottoterra rilasciando sostanze nocive nell’aria o nei canali sotterranei dell’acqua. Gli indumenti, sintetici o trattati con sostanze chimiche, possono impiegare duecento anni per biodegradarsi, sono tossici quanto le gomme o la plastica.

Il Cile da molti anni è un grande centro dell’abbigliamento invenduto prodotto in Cina o Bangladesh, ma destinato all’Asia, Europa occidentale e Nord America.

Un fenomeno legato allo smodato desiderio di seguire mode, incoraggiate da multinazionali del fast fashion, attraverso un subliminale pressing di marketing mercenario del business e moltitudini di influencer capaci, indossando un outfit in una storia di Instagram, di indurre all’emulazione ed acquisto.

Sondaggi in tal senso arrivano a segnalare che un capo low cost nelle generazioni dai 15 ai 50 viene indossato al massimo 5 volte per poi essere sostituito nell’indifferenza generale, l’importante è apparire.

Gli uomini d’affari cileni hanno una colpa importante ma altrettanto e forse più i Paesi sviluppati. Questi fatti, sempre sottaciuti alle masse, hanno conseguenze ambientali per l’intero pianeta.

Si produce all’eccesso per soddisfare domande sempre più importanti, generate dal veloce cambio di tendenze.

Pensate che la quantità di tessuti prodotti a livello globale per persona è più che raddoppiata da 5,9 kg a 13 kg nel periodo 1975-2018.

Vi è forse una responsabilità anche nell’industria del tessile? La risposta a quanto dicono i dati è affermativa. Ogni anno, l’industria del “fast fashion” consuma 93 miliardi di metri cubi d’acqua, sufficienti per soddisfare le esigenze di circa 5 milioni di persone.

Il settore è responsabile di circa il 20% dell’inquinamento delle acque industriali a causa del trattamento e della tintura dei tessuti.

Per non parlare dei problemi con i materiali e i proventi, come la produzione di cotone, che utilizza il 6% dei pesticidi mondiali e il 16% degli insetticidi.

Allora penso al movimento di Greta Thunberg, se davvero non vi sono finanziatori occulti, come mai le proteste sono rivolte solo ai Governi e non vengono attaccate le multinazionali, quelle che realmente incassano miliardi di dollari sulla pelle di nostra Madre Terra?

Un suggerimento a Greta, ricordi le parole del giurista francese Malesherbes:”Quando gli abusi vengono accolti con la sottomissione, il potere usurpatore non tarda a convertirli in legge.”

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