Sarebbe ora che certi giudici, uomini e donne al di sopra delle parti, rispondessero di assurde sentenze, senza contare quando condannano al carcere degli innocenti per errore. Non basta infatti l’indignazione pubblica per la sentenza emessa da un giudice di Torino, che assolve per maltrattamenti l’ex marito, autore di violenze sulla ex moglie, “colpevole” di aver chiesto il divorzio e di avere un nuovo compagno.
Quello che suona oltraggioso sono le parole usate dal giudice stesso nel motivare la sentenza, riferite a una vittima il cui volto, durante una lite, è stato letteralmente distrutto, tanto da richiedere l’inserimento di 21 placche di titanio, con una lesione permanente al nervo oculare. La violenza sarebbe attribuibile — e quindi leggasi giustificabile — perché rientra come uno “sfogo” nella logica delle relazioni umane.
Anche le umiliazioni e le offese rivolte alla donna, come: «Sei una puttana che ha rovinato la famiglia, per 17 anni ho dato l’anima a questa famiglia, tu non guadagnavi un cazzo e avresti fatto la fame a vivere con i ragazzi… e non sei una brava mamma», sono frasi che, secondo questo omuncolo in toga, devono essere “calate nel loro specifico contesto”. Ovvero: l’amarezza per la dissoluzione della comunità domestica era umanamente comprensibile; era legittimo che l’imputato rivendicasse il contributo dato alla famiglia; le frasi finali, al di là dello scurrile linguaggio, esprimevano solo disappunto e preoccupazione per il sicuro peggioramento delle condizioni economiche.
Sono felice che vari rappresentanti delle Istituzioni siano intervenuti chiedendo approfondimenti sulla questione, perché se è vero che la Magistratura è un organo dello Stato autonomo e indipendente, è altrettanto vero che è intollerabile che alcuni giudici valutino secondo il loro imprinting culturale, non attenendosi ai fatti.
Nel caso specifico, si tratta di un pensiero maschilista e patriarcale, riconducibile all’idea della donna come soggetto familiare di pieno possesso del capofamiglia. La logica secondo cui “si possiedono gli oggetti e non le persone” non rientra evidentemente nell’evoluzione educativa di questo giudice, secondo il quale la donna non può scegliere di avere un’altra vita, ma deve soccombere e, per giunta, subire violenze che, nelle parole della sentenza, vengono in certi passaggi definite semplici “parolacce” o “spinte al volto”.
Ribadisco da sempre che il cambiamento culturale debba partire dal nucleo familiare, a seguire dalla scuola, e concludersi nella corretta veicolazione formativa proposta dai media. Il giudice, in questo caso, sembra non abbia mai messo piede fuori di casa dagli anni ’60.